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Il franchising al tempo del covidIl franchising al tempo del Covid-19

Lo sviluppo di un modello di un business nato negli Stati Uniti

Un aspetto che accomuna molte realtà industriali B2B e B2C è il livello di attenzione riservato alla distribuzione: i produttori investono ingenti risorse per sostenere la pervasività dell’informazione commerciale fino all’ultimo anello della propria catena distributiva. E’ un atteggiamento comprensibile che spesso sconfina – se non proprio nel controllo – nella ricerca di esercizio di una forte influenza sui clienti con il fine di trasformarli in partner.

Un esempio di questo fenomeno è rappresentato dai flagship store, punti vendita progettati per comunicare in modo diretto ed efficace i valori e i punti di forza di una marca. I flagship store sono realizzati direttamente dall’azienda produttrice, spesso in punti strategici di grandi città e con costi difficilmente giustificabili se non nel contesto di un forte sostegno alla notorietà del marchio.

Ad uno stadio intermedio tra la distribuzione indipendente e i flagship store, si possono idealmente collocare i monomarca diretti, i negozi di proprietà dell’azienda, attraverso i quali produce e distribuisce i propri articoli. Non sempre queste soluzioni si rivelano interessanti e durature nel tempo: l’elevato costo di gestione delle attività, del personale dipendente e soprattutto il controllo amministrativo di queste strutture, infatti, genera un notevole complessità organizzativa ed economica per la casa madre, costretta in questo modo a misurarsi con problematiche lontane dalla sua core competence industriale.

Anche nel retail nazionale ha iniziato a svilupparsi la formula del franchising: la sua diffusione e il suo successo sono in gran parte attribuiti a una suddivisione più equa dei diritti e dei doveri tra produttore e trade, rispetto ad altri tipi di rapporti commerciali, e a una maggiore condivisione dei rischi e delle opportunità.

Il franchisee, una volta accettata la proposta di affiliazione, è avvantaggiato dalla possibilità di utilizzo del marchio in franchising perché, a prescindere dalla notorietà, questa gli consente di essere associato ad un’azienda per la quale contribuisce ad incrementarne la conoscenza e la credibilità nel mercato. Può inoltre godere di tutto il know-how, dell’esperienza e dei vantaggi derivati dal fatto di esser parte di una vasta rete di imprenditori che perseguono le stesse finalità e obiettivi.

Il franchisor, a sua volta, sostituisce il costo dell’investimento di apertura di un punto vendita monomarca diretto con una voce di entrata, rappresentata dal diritto d’ingresso e dalle royalties della propria proposta commerciale. Un vantaggio economicamente non quantificabile, ma sicuramente rilevante, risiede inoltre nel dialogo diretto con il mercato.

Il rischio commerciale e imprenditoriale nella gestione della distribuzione viene quindi suddiviso tra più titolari d’impresa motivati a collaborare per il successo comune delle loro attività.

Per queste ragioni, nei mercati più evoluti come gli Stati Uniti, questa formula ha ottenuto un grande successo superando il 30% del totale del fatturato delle vendite al dettaglio (alcolici, automobili e carburanti inclusi), mentre in Francia e in Gran Bretagna oscilla già tra il 15% ed il 20% – escluse le merceologie sopracitate.

Nel mercato italiano i dati sono confortanti, ma decisamente inferiori: il giro d’affari  ottenuto dalle catene di negozi in franchising nel 2018 ha superato i 25 miliardi, consolidando un incremento del 2% rispetto all’anno precedente. Aumentano anche il numero di punti vendita affiliati (+4,5%) e il numero di addetti nel sistema franchising (+3,8%).

Dati sicuramente positivi se consideriamo che, nello stesso periodo dell’anno precedente, il totale delle vendite al dettaglio aveva registrato una variazione negativa dello 0,6% in valore e dello 0,5% in volume.  Ad oggi, si stima che il giro di affari generato dalla distribuzione in franchising sul totale delle vendite al dettaglio in Italia si aggiri intorno al 5%.

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